Pereto - Rocca di Botte

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sabato 12 dicembre 2015

13 Dicembre 2015 ore 16:30 non verra' celebrata la Messa in Santuario

Vi comunichiamo che Domenica 13 Dicembre 2015 ci sara' l'apertura del Giubileo della Misericordia nella Diocesi di Avezzano.
L'appuntamento e' alle ore 16:30 presso la chiesa di Don Orione in Avezzano, dalla quale partira' una processione diretta verso la Cattedrale.
Qui verra' aperta la Porta della Misericordia e celebrata la Santa Messa presieduta da S. E. Mons. Pietro Santoro.
Per questo motivo non saranno celebrate le Messe pomeridiane nelle parrocchie e santuari della Diocesi dei Marsi





mercoledì 25 novembre 2015

Santa Caterina d'Alessandria Martire

Questa è la Caterina inafferrabile, senza notizie sicure della vita e della morte. Ed è la Caterina onnipresente in Europa, per la diffusione del suo culto, che ha poi influito anche sulla letteratura popolare e sul folclore. Parlano di lei alcuni testi redatti tra il VI e il X secolo, cioè tardivi rispetto all’anno 305, indicato come quello della sua morte. Ed ecco come emerge la sua figura da questi racconti pieni di particolari fantasiosi. Caterina è una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili e vive ad Alessandria d’Egitto.
Qui, nel 305, arriva Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria (che si proclamerà “Augusto”, cioè imperatore, nel 307, morendo suicida nel 313). Per l’occasione si celebrano feste grandiose, che includono anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi, e quindi anche per i cristiani, ancora perseguitati. Caterina si presenta a Massimino, invitandolo a riconoscere invece Gesù Cristo come redentore dell’umanità, e rifiutando il sacrificio.
Massimino allora convoca un gruppo di intellettuali alessandrini, perché la convincano a venerare gli dèi. Ma è invece Caterina che convince loro a farsi cristiani. Per questa conversione così pronta, Massimino li fa uccidere tutti, poi richiama Caterina e le propone addirittura il matrimonio. Nuovo rifiuto, sempre rifiuti, finché il governatore la condanna a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo.
Un nuovo miracolo salva la giovane, che poi viene decapitata: ma gli angeli portano miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo avviene il 24-25 novembre 305. E alcuni studiosi ritengono che il racconto leggendario indichi, trasfigurandola, un’effettiva traslazione del corpo sul monte, avvenuta però in epoca successiva. Dal Gebel Katherin, infine, e in data sconosciuta, le spoglie furono portate nel monastero a lei dedicato, sotto quel monte.
A una sua biografia così poco attendibile si contrappone la realtà di un culto diffuso anche fuori dall’Egitto. La troviamo raffigurata nella basilica romana di San Lorenzo, in una pittura dell’VIII secolo col nome scritto verticalmente: Ca/te/ri/na; a Napoli (sec. X-XI) nelle catacombe di San Gennaro, e più tardi in molte parti d’Italia, così come in Francia e nell’Europa centro-settentrionale, dove ispira anche poemetti, rappresentazioni sacre e “cantari”.
La sua festa annuale è vista principalmente come la festa dei giovani. In Francia, Caterina diviene la patrona degli studenti di teologia e la titolare di molte confraternite femminili; e, in particolare, la protettrice delle apprendiste sarte, che da lei prenderanno il nome destinato a durare a lungo anche in Italia: “Caterinette”.

Autore:
Domenico Agasso 

 

martedì 24 novembre 2015

Santi Martiri Vietnamiti (Andrea Dung Lac e 116 compagni)

Il cristianesimo giunse in Vietnam sul finire del secolo XVI, ma fu continuamente osteggiato dai regnanti locali tanto che, tra i secoli XVII e XIX, si susseguirono più di 50 editti contro i cristiani, che provocarono l’uccisione di circa 130 mila fedeli. La persecuzione toccò il suo acme sotto il regno di Tu-Duc (1847-1883): per i nativi era difficile dissociare la nuova fede dalla politica coloniale francese che pretendeva di impadronirsi del paese. I missionari venivano braccati a pagamento e uccisi sul luogo stesso dove venivano arrestati; ai catechisti vietnamiti veniva impresso a fuoco sul volto la scritta: «Falsa religione». I semplici fedeli avevano salva la vita solo se calpestavano la croce; altrimenti subivano supplizi di ogni genere inventati con fantasia feroce. In ogni caso, i nuclei familiari cristiani venivano smembrati e i congiunti erano deportati in regioni diverse, privati di ogni proprietà e di ogni legame religioso. Nel 1988 vari gruppi di martiri vietnamiti, beatificati dai precedenti pontefici, sono stati unificati in un solo gruppo e canonizzati da papa Giovanni Paolo II che li ha anche dichiarati «Patroni del Vietnam».Vi sono compresi: 8 vescovi, 50 sacerdoti, 59 laici (tra cui medici, militari, molti padri di famiglia e una mamma). A rappresentarli tutti, il Messale Romano nomina Andrea Dung-Lac, prima catechista e poi sacerdote, che riscuote in Vietnam una particolare devozione. Di un altro martire (Paolo Le-Bao-Tinh) il Breviario riporta oggi un brano di lettera dove si legge: «In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia perché non sono solo, ma Cristo è con me».

Martirologio Romano: Memoria dei santi Andrea Dung Lac, sacerdote, e compagni, martiri. Con un’unica celebrazione si onorano centodiciassette martiri di varie regioni del Viet Nam, tra i quali otto vescovi, moltissimi sacerdoti e un gran numero di fedeli laici di entrambi i sessi e di ogni condizione ed età, che preferirono tutti patire l’esilio, il carcere, le torture e l’estremo supplizio piuttosto che recare oltraggio alla croce e rinnegare la fede cristiana.

La storia del cattolicesimo in Vietnam, iniziò nel secolo XVI con padre Alessandro de Rhodes, missionario francese, considerato il primo apostolo di questa giovane Chiesa asiatica, allora divisa un tre distinte regioni: Tonchino, Annam e Cocincina.
Ma dal 1645 quando padre de Rhodes fu espulso, ci fu tutto un sopravvenire di persecuzioni, alternate da periodi di pace, in cui i missionari di varie Congregazioni si stabilizzavano nelle regioni, rincuorando i fedeli e soprattutto istituendo le ‘Case di Dio’ per la formazione del clero locale e dei catechisti.
Dal 1645 al 1886, si ebbero ben 53 editti contro i cristiani con la morte di circa 113.000 fedeli. Durante il regno di Minh-Manh (re dal 1821), la persecuzione divenne spietata, condannando a morte anche chi osava solo nascondere i cristiani; altro re particolarmente contrario fu Tuc-Dúc che regnò dal 1847 al 1883, il quale profondamente avverso alla politica coloniale francese, odiava tutto ciò che fosse europeo, non distinguendo la politica dalla religione; stabilì che chi collaborava alla cattura di un missionario riceveva 300 once d’argento, mentre il missionario, dopo avergli spaccato il cranio, doveva essere gettato nel fiume.
I sacerdoti locali ed i catechisti stranieri venivano sgozzati, mentre ai catechisti locali veniva impressa sulla guancia la scritta “Ta dao” che significa “falsa religione”, additandoli così al pubblico disprezzo; i semplici fedeli cristiani potevano aver salva la vita se calpestavano la croce davanti al giudice.
Inoltre davanti alla fermezza nella fede dei cristiani, ne ordinò la dispersione, separando i mariti dalle mogli ed i figli dai genitori, esiliandoli in regioni lontane in mezzo ai pagani, confiscando tutti i loro beni.
Di questa miriade di martiri, eroi della fede, la Chiesa ne ha beatificati un certo numero negli anni: 1900 da Leone XIII, 1906 e 1909 da Pio X, 1951 da Pio XII; di questi 117 sono stati proclamati santi da papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988, così suddivisi: 8 vescovi, 50 sacerdoti, 59 laici; 96 sono vietnamiti, 11 spagnoli, 10 francesi; fra i laici vi sono 16 catechisti, una mamma, 4 medici, 6 militari, molti padri di famiglia.

Il capolista dei 117 martiri è Andrea Dung-Lac prima catechista e poi sacerdote vietnamita. Nacque nel 1795 da genitori pagani ma così poveri che se ne disfecero volentieri vendendolo ad un catechista, visse alla missione di Vinh-Tri, dove fu battezzato, istruito e diventando anche catechista; continuò gli studi teologici e il 15 marzo 1823 fu consacrato sacerdote, nominato parroco in varie zone, alla fine fu arrestato più volte durante la persecuzione del re Minh-Manh, ogni volta fu riscattato presso i mandarini, dai cristiani locali, continuando, pericolosamente per lui, l’apostolato fra i fedeli e amministrando i sacramenti.
Arrestato ancora una volta il 10 novembre 1839 dal sindaco di Ké-Song, fu rilasciato dietro il pagamento di 200 pezze d’argento raccolte fra i cristiani, ma mentre attraversava il fiume in barca per allontanarsi, ebbe delle difficoltà per cui fu aiutato a scendere a terra sull’altra sponda; chi l’aiutò era il segretario del prefetto che riconosciutolo esclamò: “Ho preso un maestro di religione!”.
Condotto nella prigione di Hanoi il 16 novembre 1839, fu sottoposto a snervanti interrogatori e invitato più volte ad apostatare e calpestare la croce, ma essendo restato fermo nella sua fede venne condannato alla decapitazione, sentenza eseguita il 21 dicembre 1839.
È stato posto come capolista nel calendario liturgico, sia per il culto che gode nel suo Paese, sia per l’esempio luminoso dato durante la sua vita. Gli altri 116 santi martiri nel Tonchino (Vietnam) hanno ognuno una storia edificante del loro martirio, compiutasi in luoghi e date diverse, ma accomunati nella gloria dei santi. La comune festa liturgica dei 117 martiri del Tonchino (Vietnam), fu fissata al 24 novembre, con memoria singola per alcuni di essi, specie per quelli appartenenti a Congregazioni Missionarie.

 

domenica 15 novembre 2015

Sant' Alberto Magno Vescovo e dottore della Chiesa

Nacque in Germania verso il 1200. Molto giovane venne in Italia per studiare le arti a Padova e forse anche a Bologna e Venezia. Durante il soggiorno nella penisola conobbe i domenicani, dai quali fu inviato a Colonia per la formazione religiosa e per lo studio della teologia. Approdò infine a Parigi dove tenne la cattedra di teologia per tre anni, durante i quali ebbe un allievo d’eccezione:Tommaso d’Aquino. Rimandato dai superiori a Colonia per fondarvi lo studio teologico, portò con sé Tommaso con il quale avviò un progetto molto ambizioso: il commento dell’opera di Dionigi l’Areopagita e degli scritti filosofico­naturali di Aristotele. Alberto vedeva il punto d’incontro di questi due autori nella dottrina dell’anima. Posta da Dio nell’oscurità dell’essere umano (Dionigi), secondo Aristotele l’anima si esprime nella conoscenza e negli aspetti pratici dell’esistenza umana.In questo agire complesso e meraviglioso, essa svela la sua origine divina. Alberto dava così avvio all’orientamento mistico nel suo ordine che sarà sviluppato da maestro Eckhart, mentre la ricerca filosofico-teologica verrà proseguita da san Tommaso. Grande studioso delle scienze naturali, Alberto non rifuggì dagli incarichi pastorali. Fu provinciale dell’ordine domenicano per il nord della Germania, per breve tempo vescovo di Ratisbona, partecipò al concilio di Lione. Il «dottore universale» morì nel 1280.

Patronato: Scienziati

Etimologia: Alberto = di illustre nobiltà, dal tedesco

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Sant’Alberto, detto Magno, vescovo e dottore della Chiesa, che, entrato nell’Ordine dei Predicatori, insegnò a Parigi con la parola e con gli scritti filosofia e teologia. Maestro di san Tommaso d’Aquino, riuscì ad unire in mirabile sintesi la sapienza dei santi con il sapere umano e la scienza della natura. Ricevette suo malgrado la sede di Ratisbona, dove si adoperò assiduamente per rafforzare la pace tra i popoli, ma dopo un anno preferì la povertà dell’Ordine a ogni onore e a Colonia in Germania si addormentò piamente nel Signore.


Alberto, della nobile famiglia Bollstadt, prese ancora giovanissimo l’Abito dei Predicatori dalle mani del Beato Giordano di Sassonia, immediato successore del Santo Patriarca Domenico. Dopo aver trionfato nel mondo, al giovane studente sembrò ostacolo insormontabile le difficoltà che incontrava nello studio della Teologia, e fu tentato di fuggire dalla casa del Signore. La Madonna, però, di cui era devotissimo, lo animò a perseverare, rassenerandolo nei suoi timori, dicendogli: “Attendi allo studio della sapienza e affinché non ti avvenga di vacillare nella fede, sul declinare della vita ogni arte di sillogizzare ti sarà tolta”. Sotto la tutela della Celeste Madre, Alberto divenne sapiente in ogni ramo della cultura, sì da essere acclamato Dottore universale e meritare il titolo di Grande, ancor quando era in vita. Insegnò con sommo onore a Parigi e nei vari Studi Domenicani di Germania, soprattutto in quello di Colonia, da lui fondato, dove ebbe tra i suoi discepoli San Tommaso d’Aquino, di cui profetizzò la grandezza. Fu Provinciale di Germania e, nel 1260, Vescovo di Ratisbona, alla cui sede rinunziò per darsi di nuovo all’insegnamento e alla predicazione. Fu arbitro e messaggero di pace in mezzo ai popoli, e al Concilio di Lione portò il contributo della sua sapienza per l’unione della Chiesa Greca con quella Latina. Avanzato negli anni saliva ancora vigoroso la cattedra, ma un giorno, come Maria aveva predetto, la sua memoria si spense. Anelò allora solo al cielo, al quale volò dopo quattro anni, il 15 novembre 1280, consumato dalla divina carità. La sua salma riposa nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Colonia. Papa Gregorio XV nel 1622 lo ha beatificato. Papa Pio XI nel 1931 lo ha proclamato Santo e Dottore della Chiesa. Il 16 dicembre 1941 Papa Pio XII lo ha dichiarato Patrono dei cultori delle scienze naturali.

Autore:
Franco Mariani 

 

lunedì 9 novembre 2015

Dedicazione della Basilica Lateranense

All’inizio del IV secolo, Roma cominciò a cambiare il suo tradizionale aspetto architettonico grazie all’imperatore Costantino e all’attività edilizia da lui favorita. Egli fece costruire la basilica di San Giovanni in Laterano con un battistero e un palazzo che divenne la residenza dei vescovi di Roma.
Cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano è la madre di tutte le chiese dell’urbe e dell’orbe. E’ il simbolo della fede dei cristiani nei primi secoli, che sentivano la necessità di riunirsi in un luogo comune e consacrato per celebrare la Parola di Dio e i Sacri Misteri. La festa odierna, come ben evidenzia la liturgia, è la festa di tutte le chiese del mondo.

Martirologio Romano: Festa della dedicazione della basilica Lateranense, costruita dall’imperatore Costantino in onore di Cristo Salvatore come sede dei vescovi di Roma, la cui annuale celebrazione in tutta la Chiesa latina è segno dell’amore e dell’unità con il Romano Pontefice.


Chiese ancora il prefetto Rustico: "Dove vi riunite?". Giustino rispose: "Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non è cosi perchè il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempie il cielo e la terra ed è venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli" (Atti del Martirio di S. Giustino e Compagni). Nella sua franca risposta, il grande apologeta S. Giustino ripeteva dinanzi al giudice quel che Gesù aveva detto alla Samaritana: "Credimi, donna, è giunto il momento in cui nè su questo monte nè in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quel che conosciamo, perchè la salvezza viene dai Giudei. Ma e` giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perchè il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Gv 4,21-24).
La festa di oggi, della dedicazione della basilica del SS. Salvatore o di S. Giovanni in Laterano, non è certamente in contrasto con la testimonianza di S. Giustino e con la parola di Cristo. Salvi infatti il dovere e il diritto della preghiera sempre e dovunque, è anche vero che fin dai tempi apostolici la Chiesa, in quanto gruppo di persone, ha avuto bisogno di alcuni luoghi in cui riunirsi a pregare, proclamando la Parola di Dio e rinnovando il sacrificio di morte e risurrezione di Cristo, in attuazione delle Sue parole: "Prendete e mangiatene tutti; Prendete e bevetene tutti; Fate questo in memoria di me". Inizialmente queste riunioni venivano fatte nelle case private, anche perchè la Chiesa non godeva ancora di alcun riconoscimento. Ma questo dovette venire abbastanza presto: c'è un singolare episodio all'inizio del secolo III, quando Alessandro Severo diede ragione alla comunità cristiana in un processo contro degli osti, che reclamavano contro la trasformazione di un'osteria in luogo di culto cristiano. La Basilica Lateranense venne fondata da papa Melchiade (311-314) nelle proprietà donate a questo scopo da Costantino di fianco al Palazzo Lateranense, fino allora residenza imperiale e poi residenza pontificia. Sorgeva così la "chiesa-madre di tutte le chiese dell'Urbe e dell'Orbe", distrutta e ricostruita molte volte. Vennero celebrati in essa o nell'attiguo Palazzo Lateranense (ora sede del Vicariato di Roma) ben cinque concili, negli anni 1123, 1139, 1179, 1215 e 1512. "Ma il tempio vivo e vero di Dio dobbiamo esserlo noi", dice S. Cesario di Arles.

Autore:
Piero Bargellini 

 

venerdì 6 novembre 2015

San Carlo Borromeo Vescovo

Nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l'uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni. Fondò a Roma un'Accademia secondo l'uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane». Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant'Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all'interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali. Un'opera per la quale fu obiettivo di un fallito attentanto. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto: «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584. (Avvenire)

Martirologio Romano: Memoria di san Carlo Borromeo, vescovo, che, fatto cardinale da suo zio il papa Pio IV ed eletto vescovo di Milano, fu in questa sede vero pastore attento alle necessità della Chiesa del suo tempo: indisse sinodi e istituì seminari per provvedere alla formazione del clero, visitò più volte tutto il suo gregge per incoraggiare la crescita della vita cristiana ed emanò molti decreti in ordine alla salvezza delle anime. Passò alla patria celeste il giorno precedente a questo.
(3 novembre: A Milano, anniversario della morte di san Carlo Borromeo, vescovo, la cui memoria si celebra domani).


Nella storia civile e anche in quella della Chiesa troviamo vari personaggi cui i posteri hanno decretato il titolo di Magno. Non li enumero qui perché sono facili da ricordare e poi non sono moltissimi. Al santo che vi presento, San Carlo Borromeo, non è stato dato il titolo di Grande, ma secondo me lo meriterebbe, almeno nell’ambito della storia ecclesiastica. È un personaggio centrale del 1500, una delle figure più eminenti, la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la forza dell’oblio.
Carlo nacque ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1538, in una nobile e ricca famiglia. Il padre, Gilberto, era noto per la profonda religiosità e per la sua generosità verso i poveri. Anche la madre, Margherita, era piissima: purtroppo morì quando Carlo aveva solo nove anni. Questo influsso dei genitori rimarrà fondamentale nella sua educazione.
A 12 anni, Carlo fu nominato commendatario di un’abbazia benedettina di Arona, che fruttava una rendita di 2000 scudi.
Una cifra considerevole. Nonostante l’età, però, il ragazzo aveva già le idee chiare.
Infatti, appena ricevuta l’investitura, corse dal padre per dirgli che aveva deciso di spendere quei soldi in aiuto dei poveri. Non c’è male per un dodicenne. I suoi pari di oggi sono anni luce lontano da lui.
Arrivati i 14 anni si recò a studiare prima a Milano poi a Pavia, portando con sé solo un piccola somma di denaro. Ma a lui questa condizione di strettezza economica (relativamente al suo rango) non pesava più di tanto. Nella condizione di studente rivelò ben presto i suoi numerosi talenti: grande intelligenza, carattere tenace e riflessivo, era portato all’essenziale, a non perdersi cioè in tante banalità ed esperienze superficiali, non infrequenti a quell’età. Nel 1559, diventò dottore “in utroque jure” ed aveva solo 21 anni.
A Roma, intanto, alla fine dello stesso anno ci fu il cambio di guardia in Vaticano. Era stato eletto un nuovo Papa, Pio IV, nella persona di Gianangelo de’ Medici, suo zio materno. Questo fatto impresse una svolta alla sua vita. Fu infatti chiamato dallo stesso Papa nella Città Eterna insieme al fratello Federico.

Carriera ecclesiastica a Roma

Nel caso di Pio IV ci troviamo davanti ad un raro caso di nepotismo positivo per la Chiesa. Il Papa promosse immediatamente i due nipoti: Federico (1561) ebbe la carica di capitano generale della Chiesa, Carlo non ancora ventiduenne, fu nominato cardinale con un incarico che oggi potremmo chiamare di Segretario di Stato. Poco dopo gli affidò anche l’amministrazione della diocesi di Milano con l’obbligo di restare però... a Roma. E questa non era l’unica carica. Ne ebbe parecchie altre con l’inevitabile cumulo anche dei rispettivi benefici economici. Gli storici dicono che l’accordo tra Papa e nipote fu sempre perfetto. Carlo nonostante le cariche rimaneva sempre un uomo di cultura.
Al tal fine fondò un’accademia a carattere umanistico-letterario, composta da amici, chiamata Notti Vaticane. Si era anche comprato un fastoso palazzo con servitù a seguito, in cui organizzava fastosi e festosi ricevimenti. Erano i tempi: il tutto non per vanità ma perché lo riteneva opportuno per la carica che ricopriva e per la fama e decoro della famiglia da cui proveniva.

L’evento decisivo

L’improvvisa morte del fratello Federico (1562) gli fece cambiare radicalmente vita. La interpretò come un segno da parte di Dio per riformare la propria vita ancor più in senso evangelico. Così cambiò radicalmente: addio ai festosi ricevimenti, addio ai divertimenti anche moralmente leciti, addio alle Notti Vaticane che divennero un cenacolo di cultura religiosa. Ridusse il proprio tenore di vita, intensificando la penitenza, i digiuni e le rinunce. Riprese inoltre, con più impegno, la propria formazione teologica e pastorale. Era pur sempre vescovo di una diocesi anche se non esercitava direttamente.
Il Papa vide perplesso la trasformazione in senso ascetico del prezioso nipote (che qualche volta chiamava “il mio occhio destro”). Scosse la testa: il tutto gli sembrava esagerato. Giunse persino a sgridarlo (addebitando l’eccessivo zelo ascetico ai consigli dei suoi direttori spirituali e all’influsso di personaggi contemporanei del calibro di Ignazio di Loyola, Gaetano da Thiene, Filippo Neri: guarda caso tutti Santi dichiarati tali dalla Chiesa). Il Papa lo scoraggiò, lo rimproverò, ma lo lasciò fare, e alla fine lo... imitò.
Ma il più grande merito di Carlo Borromeo fu che convinse il Papa a riconvocare il Concilio di Trento sospeso nel 1555. Se questo lavorò tanto e bene e se finì gloriosamente e proficuamente per la Chiesa (1563) il grande merito fu di Carlo. Egli ne fu la mente organizzatrice e l’ispiratore.
Nel luglio 1563, fu ordinato sacerdote e poco tempo dopo vescovo. Voleva fare il pastore di anime nella sua diocesi di Milano e ne aspettava l’occasione.
Il Concilio era finito ma bisognava assicurarsi che anche il successore di Pio IV avesse l’intenzione di continuare la riforma che ne era scaturita. Carlo credeva nell’azione dello Spirito Santo nella direzione della Chiesa, ma, nello stesso tempo, faceva umanamente quello che lui stesso pensava utile. Al vecchio e ammalato zio infatti suggerì i nomi dei nuovi cardinali del futuro conclave: doveva promuovere solo quelli favorevoli alla riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento. Fatto questo gli chiese di poter presiedere, come legato papale, il consiglio provinciale che si teneva a Milano (la sua diocesi) per attuare le disposizioni conciliari. Lo zio Papa acconsentì. E Carlo partì. Ma poco tempo dopo dovette in tutta fretta fare ritorno a Roma (in compagnia di Filippo Neri) perché il Papa era ormai alla fine. Pio IV infatti morì tra le sue braccia il 9 dicembre 1565.
Morto un Papa, se ne fa un altro, così dice il proverbio. E così fu. Il 7 gennaio 1566, il Nostro avrebbe potuto farsi eleggere Papa con facilità, la sua “lobby” infatti era fortissima. Ed inoltre, era degnissimo. Ma lo Spirito Santo e lui non vollero. Fu eletto il Card. Michele Ghislieri, domenicano, favorevole all’attuazione del Concilio di Trento. E Carlo fu uno dei suoi “sponsor”.

Un pastore “di ferro” che dà la sua vita

Nell’aprile del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore instancabile tanto che Filippo Neri esclamò: “Ma quest’uomo è di ferro”.
Organizzò la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie attività e associazioni parrocchiali. Si impegnò molto nella formazione del clero creando il seminario maggiore e minore. Fu soprattutto instancabile nel visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale, iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.
La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro: “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima?... I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili. Come si vede concrete.
Tutto bene quindi nella sua opera di riforma? Non proprio. Incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Motivo? Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.
Ma lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che “dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576. Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via.
Fece subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.
Nonostante tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a Torino. Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle brame dei Francesi (motivo politico). L’esposizione della reliquia fatta a Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.
A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente. La morte lo colse preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.
Carlo Borromeo moriva fisicamente ma la sua eredità, fatta di santità personale e di azione instancabile per la Chiesa era più viva che mai, e sarebbe continuata nei secoli. Fino ad oggi.

Autore:
Mario Scudu sdb

 
 

martedì 3 novembre 2015

Lavoro frutto di condivisione: un'opera d'arte!







domenica 1 novembre 2015

Tutti i Santi 1 novembre

Festeggiare tutti i santi è guardare coloro che già posseggono l’eredità della gloria eterna. Quelli che hanno voluto vivere della loro grazia di figli adottivi, che hanno lasciato che la misericordia del Padre vivificasse ogni istante della loro vita, ogni fibra del loro cuore. I santi contemplano il volto di Dio e gioiscono appieno di questa visione. Sono i fratelli maggiori che la Chiesa ci propone come modelli perché, peccatori come ognuno di noi, tutti hanno accettato di lasciarsi incontrare da Gesù, attraverso i loro desideri, le loro debolezze, le loro sofferenze, e anche le loro tristezze.
Questa beatitudine che dà loro il condividere in questo momento la vita stessa della Santa Trinità è un frutto di sovrabbondanza che il sangue di Cristo ha loro acquistato. Nonostante le notti, attraverso le purificazioni costanti che l’amore esige per essere vero amore, e a volte al di là di ogni speranza umana, tutti hanno voluto lasciarsi bruciare dall’amore e scomparire affinché Gesù fosse progressivamente tutto in loro. E' Maria, la Regina di tutti i Santi, che li ha instancabilmente riportati a questa via di povertà, è al suo seguito che essi hanno imparato a ricevere tutto come un dono gratuito del Figlio; è con lei che essi vivono attualmente, nascosti nel segreto del Padre.

Martirologio Romano: Solennità di tutti i Santi uniti con Cristo nella gloria: oggi, in un unico giubilo di festa la Chiesa ancora pellegrina sulla terra venera la memoria di coloro della cui compagnia esulta il cielo, per essere incitata dal loro esempio, allietata dalla loro protezione e coronata dalla loro vittoria davanti alla maestà divina nei secoli eterni.


«Oggi, o Padre, ci dai la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre» canta la  Santa  Chiesa  nel  Prefazio  della Messa  di questa luminosa solennità, “Pasqua dell’autunno”, nella quale «in un unico giubilo di festa – dice il Martirologio Romano  –  la  Chiesa  ancora  pellegrina  sulla  terra  venera  la  memoria  di  coloro  della  cui compagnia esulta il cielo».
La Chiesa non contempla se stessa. Può capitare che lo facciano singoli credenti, o anche intere comunità, ma la Chiesa, Sposa di Cristo, è il suo Sposo che contempla!
Mentre si rallegra di tanta parte di sé già nella gloria eterna, è Lui che la Chiesa contempla e, se vede se stessa, vede ciò che veramente essa è: opera del Salvatore; redenta dal Sangue dell’Agnello; consapevole che il bene che è in lei, e di cui ringrazia e gioisce, viene dalla Grazia di Dio ed il male presente, di cui soffre ed invita all’umile pentimento, è frutto della fragilità degli uomini.
La Chiesa guarda con gioia gli innumerevoli suoi figli che hanno raggiunto la meta, ma sa che essi, come ha detto san Giovanni (Ap.7,2-4.9-14), «sono quelli che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» e sostenuti dalla Grazia hanno testimoniato la fede: alcuni come martiri in persecuzioni cruente, poiché coraggiosamente hanno assunto come criterio di valutazione la Parola del Signore, non l’opinione propria o di altri; alcuni come discepoli di Cristo nel cammino quotidiano della vita: alcuni “grandi”, che hanno impegnato doti elevate in opere straordinarie, altri “piccoli” che hanno vissuto senza grandi imprese; una schiera di uomini e donne che «hanno cercano il volto di Dio», (cfr. Sal. 23) rivelatosi nel volto di Gesù che proclama «beati», felici – (Mt 5,1-12) – «i poveri in spirito», coloro che sono «nel pianto», i «miti»,   «quelli che hanno fame e sete della giustizia», i «misericordiosi», i «puri di cuore», gli «operatori di pace», i «perseguitati per la giustizia» e per «causa Sua»; uomini e donne, giovani e adulti, che hanno conosciuto il peccato e i limiti della creatura umana, ma hanno lottato in un cammino di conversione a Cristo dentro le situazioni e le circostanze del viaggio terreno ed hanno fatto esperienza della misericordia di Dio, della pace che Dio dona e di cui quel martellante “Beati ” nel discorso della Montagna rivela le condizioni.
Incamminati anche noi verso «la città del cielo», destino, meta del nostro vivere sulla terra, la contempliamo, ripetendo una stupenda preghiera con la gioia e la fiducia con cui la compose Giovanni da Fécamp, nipote di san Guglielmo di Volpiano che fondò l’abbazia di S. Benigno Canavese e morì anch’egli nel monastero di Fécamp in Normandia; la facciamo nostra, consapevoli che il cammino di fede consiste nel dare a Dio, ma prima ancora nell’accogliere da Lui i Suoi doni, poiché è il Suo amore accolto ed assaporato che ci mette in movimento, e la santità che ci è proposta è consegnarci al Suo Amore, come fu per i discepoli chiamati a Sé da Gesù e che «si avvicinarono a lui», come abbiamo ascoltato nel Vangelo.
«O Casa luminosa e bellissima, io ho sempre amato il tuo splendore, il luogo dove abita la gloria del mio Signore, Colui che ti ha costruita e ti possiede. Sospiri a te il mio cammino quaggiù: io grido a Colui che ti ha fatta perché dentro le tue mura Egli possiede anche me. Io sono andato errando come una pecora smarrita, ma sulle spalle del mio Pastore, che è il tuo architetto, io spero di essere ricondotto a te.
Gerusalemme, città eterna di Dio, non si scordi di te l’anima mia. Dopo l’amore per Cristo sii tu la mia gioia ed il dolce ricordo del tuo nome beato mi sollevi da ogni triste zza e da tutto ciò che mi opprime».
La «casa luminosa e bellissima», meta del nostro pellegrinaggio sulla terra – ci fa comprendere il monaco Giovanni – è opera di Cristo che con la Sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione ci ha aperto la strada per il cielo, Lui che ha detto: Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo, e che con la Sua presenza misteriosa e reale ci sostiene nel cammino verso il traguardo.
Raggiungere questa meta è l’essenziale della vita, di questa vita che è bella non perché sia sempre piacevole, ma perché è iscritta in un Mistero d’Amore e destinata a costituire la Città eterna della quale, già ora, io sono pietra che il divino Architetto prepara lavorandola con lo scalpello del Suo amore misericordioso.
«Sospiri a te il mio cammino quaggiù» Gli diciamo con il monaco Giovanni. Questo sospiro è la voce più vera del nostro essere che manifesta l’insopprimibile desiderio di felicità posto da Dio nel cuore umano: un cuore che chiede l’Eternità, poiché è fatto così dal Creatore: per una totalità, per una pienezza: poiché per meno di tutto non vale la pena!
«Io grido a Colui che ti ha fatta, perché dentro le tue mura Egli possiede anche me ». E’ la preghiera che dalla Chiesa oggi sale al Signore con intensità speciale. La facciamo nostra perché sappiamo che anche noi «siamo andati errando come pecora smarrita», ma  «sulle spalle del Pastore, speriamo di essere ricondotti a Lui» e ci «protendiamo» perciò «nella corsa per afferrarlo noi che già siamo stati afferrati da Cristo» (cfr. Fil.3,12).
I nostri Santi, tutti i fratelli e le sorelle che abbiamo nella Gerusalemme del cielo, come amici e modelli di vita ci accompagnano nel viaggio. Noi li guardiamo commossi e con il monaco Giovanni diciamo: «Gerusalemme, città eterna di Dio, non si scordi di te l’anima mia. Il dolce ricordo del tuo nome beato mi sollevi da ogni tristezza e da tutto ciò che mi opprime».

Autore: Mons. Edoardo Aldo Cerrato CO



mercoledì 28 ottobre 2015

Santi Simone e Giuda Apostoli

Il primo era soprannominato Cananeo o Zelota, e l’altro, chiamato anche Taddeo, figlio di Giacomo.
Nei vangeli i loro nomi figurano agli ultimi posti degli elenchi degli apostoli e le notizie che ci vengono date su di loro sono molto scarse. Di Simone sappiamo che era nato a Cana ed era soprannominato lo zelota, forse perché aveva militato nel gruppo antiromano degli zeloti. Secondo la tradizione, subì un martirio particolarmente cruento. Il suo corpo fu fatto a pezzi con una sega. Per questo è raffigurato con questo attrezzo ed è patrono dei boscaioli e taglialegna.
L’evangelista Luca presenta l’altro apostolo come Giuda di Giacomo. I biblisti sono oggi divisi sul significato di questa precisazione. Alcuni traducono con fratello, altri con figlio di Giacomo.
Matteo e Marco lo chiamano invece Taddeo, che non designa un personaggio diverso. È, invece, un soprannome che in aramaico significa magnanimo. Secondo san Giovanni, nell’ultima cena proprio Giuda Taddeo chiede a Gesù: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». Gesù non gli risponde direttamente, ma va al cuore della chiamata e della sequela apostolica: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». L’unica via per la quale Dio giunge all’uomo, anzi prende dimora presso di lui è l’amore. Non è un caso che la domanda venga da Giuda. Il suo cuore magnanimo aveva, probabilmente, intuito la risposta del Maestro. Come Simone, egli è venerato come martire, ma non conosciamo le circostanze della sua morte. Secondo gli Atti degli Apostoli, però, sappiamo che gli apostoli furono testimoni della resurrezione, e questa è la gloria maggiore dell’apostolo e di ogni discepolo di Gesù.

Martirologio Romano: Festa dei santi Simone e Giuda, Apostoli: il primo era soprannominato Cananeo o “Zelota”, e l’altro, chiamato anche Taddeo, figlio di Giacomo, nell’ultima Cena interrogò il Signore sulla sua manifestazione ed egli gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».



Il 28 di ottobre la Chiesa commemora la festa liturgica degli Apostoli:

San SIMONE
Simone, da Luca soprannominato Zelota (Lc 6, 15; At 1, 13), forse perché aveva militato nel gruppo antiromano degli Zeloti, da Matteo e Marco è chiamato Cananeo (Mt 10, 4; Mc 3, 18).

San GIUDA TADDEO
Giuda è detto Taddeo (Mt 10, 3; Mc 3, 18) o Giuda di Giacomo (Lc 16, 16; At 1, 13). Nell’ultima cena rivolse a Gesù la domanda: «Signore come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». Gesù gli rispose che l’autentica manifestazione di Dio è riservata a chi lo ama e osserva la sua parola (Gv 14, 22-24). Una lettera del Nuovo Testamento porta il suo nome. 

La loro festa il 28 ottobre è ricordata dal calendario geronimiano (sec. VI). In questo stesso giorno si celebra a Roma fin dal sec. IX.



domenica 25 ottobre 2015

Ora solare

ORARI SANTA MESSA ORA SOLARE



SABATO  E PREFESTIVI ORE 16:30

DOMENICA E FESTIVI ORE 9:30 E 16:30

sabato 24 ottobre 2015

Sant' Antonio Maria Claret Vescovo

Una figura del secolo XIX al cui nome è tuttora legata una congregazione religiosa diffusa in tutti i continenti, quella dei Missionari del Cuore Immacolato di Maria, detti appunto Clarettiani. Di origine catalana, appena ordinato sacerdote Claret si reca a Roma, a Propaganda Fide, per essere inviato missionario. Ma la salute precaria lo costringe a tornare in patria. Così per sette anni si dedica alla predicazione delle missioni popolari tra la Catalogna e le Isole Canarie. È tra i giovani raggiunti in questa attività apostolica che nasce l’idea della congregazione. Nel 1849 viene nominato arcivescovo di Santiago di Cuba. Morirà il 24 ottobre 1870. (Avvenire)

Martirologio Romano: Sant’Antonio Maria Claret, vescovo: ordinato sacerdote, per molti anni percorse la regione della Catalogna in Spagna predicando al popolo; istituì la Società dei Missionari Figli del Cuore Immacolato della Beata Maria Vergine e, divenuto vescovo di Santiago nell’isola di Cuba, si adoperò con grande merito per la salvezza delle anime. Tornato in Spagna, sostenne ancora molte fatiche per la Chiesa, morendo infine esule tra i monaci cistercensi di Fontfroide vicino a Narbonne nella Francia meridionale. 

Nato in una famiglia profondamente cristiana di tessitori catalani con dieci figli. Viene ordinato nel 1835, a 28 anni. Va a Roma nel 1839 e si rivolge a Propaganda Fide per essere inviato come missionario in qualsiasi parte del mondo. Non potendo raggiungere questo obiettivo, entra come novizio tra i Gesuiti, ma dopo pochi mesi deve tornare in patria perché malato. Per sette anni predica numerosissime missioni popolari in tutta la Catalogna e le isole Canarie conquistando un'immensa popolarità, anche come taumaturgo. Sa mettere insieme la gente dando vita ad associazioni e gruppi. Nel 1849 fonda una Congregazione apostolica: i Figli dell’Immacolato Cuore di Maria Oggi anche conosciuti come Missionari Clarettiani. All'inizio del terzo millennio, essi lavorano in 65 paesi dei cinque continenti. Nel 1936/ 39, durante la guerra civile spagnola, 271vengono uccisi per causa della fede. Tra questi spiccano i 51 Martiri di Barbastro, beatificati da Giovanni Paolo II il 1992. (Vedi in questa web: Martiri Spagnoli Clarettiani di Barbastro). 
Nominato nel 1849 arcivescovo di Santiago di Cuba (all'epoca appartenente alla corona di Spagna), arriva in diocesi nel febbraio di 1851. Nel suo strenuo lavoro apostolico affronta i gravi problemi morali, religiosi e sociali dell'Isola: concubinato, povertà, schiavitù, ignoranza, ecc., ai quali si aggiungono due calamità che colpiscono la popolazione: epidemie e terremoti. 
Ripercorre la sua vasta diocesi per ben quattro volte missionando instancabilmente con un gruppo di santi missionari. Le sue preoccupazioni pastorali si riversano anche in gran parte nel potenziamento del seminario e nella riformazione del clero. Nell'ambito sociale, promuove l'agricoltura, anche con diverse pubblicazioni e creando una fattoria-modello a Camagüey. Oltre a questo crea in ogni parrocchia una cassa di risparmio, opera pioniera in America Latina. Promuove l'educazione cercando Istituti religiosi e creando egli stesso insieme alla Venerabile Maria Antonia Paris la congregazione delle Religiose di Maria Immacolata (Missionarie Clarettiane). La sua strenua fortezza nel difendere i diritti della Chiesa e i diritti umani li crea numerosi nemici tra i politici e i corrotti. E così subisce minacce e attentati, tra i quali uno ad Holguin, dove viene gravemente ferito al volto. Nel 1857 la regina lo richiama a Madrid come suo confessore. In questa tappa continua ad annunziare il Vangelo nella capitale e in tutta la penisola. 
Esiliato in Francia nel 1868 arriva con la regina a Parigi e, anche qui, prosegue le sue predicazioni. 
Poi partecipa in Roma al concilio Vaticano I dove difende con ardore l'infallibilità del Romano Pontefice. 
Perseguitato ancora dalla rivoluzione, si rifugia nel monastero di Fontfroide presso Narbona, dove spira santamente il 24 ottobre del 1870. 
Sulla tomba vengono scolpite le parole di papa Gregorio VII: "Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio". Il suo corpo si venera nella Casa Madre dei Clarettiani a Vic (Barcellona). 
E l’8 maggio 1950, Pio XII lo proclama santo, e dice del Claret: "spirito grande, sorto come per appianare i contrasti: poté essere umile di nascita e glorioso agli occhi del mondo; piccolo nella persona però di anima gigante; modesto nell'apparenza, ma capacissimo d'imporre rispetto anche ai grandi della terra; forte di carattere però con la soave dolcezza di chi sa dell'austerità e della penitenza; sempre alla presenza di Dio, anche in mezzo ad una prodigiosa attività esteriore; calunniato e ammirato, festeggiato e perseguitato. E tra tante meraviglie, quale luce soave che tutto illumina, la sua devozione alla Madre di Dio".

Autore: 
P. Jesús Bermejo, CMF


 

San Giovanni da Capestrano Sacerdote

Era nato a Capestrano, vicino all'Aquila, nel 1386, da un barone tedesco, ma da madre abruzzese. Studente a Perugia, si laureò e divenne ottimo giurista, tanto che Ladislao di Durazzo lo fece governatore di quella città. Ma caduto prigioniero, decise di farsi francescano, diventando amico di san Bernardino e difendendolo quando, a causa della devozione del Nome di Gesù, venne accusato d'eresia. Anch'egli così prese come emblema il monogramma bernardiniano di Cristo Re. Il Papa lo inviò suo legato in Austria, in Baviera, in Polonia, dove si allargava sempre di più la piaga degli Ussiti. In Terra Santa promosse l'unione degli Armeni con Roma. Aveva settant'anni, nel 1456, quando si trovò alla battaglia di Belgrado investita dai Turchi. Per undici giorni e undici notti non abbandonò mai il campo. Ma tre mesi dopo, il 23 ottobre, Giovanni moriva a Ilok, in Slavonia, oggi in Croazia orientale.

Martirologio Romano: San Giovanni da Capestrano, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che difese l’osservanza della regola e svolse il suo ministero per quasi tutta l’Europa a sostegno della fede e della morale cattolica. Con il fervore delle sue esortazioni e delle sue preghiere incoraggiò il popolo dei fedeli e si impegnò nella difesa della libertà dei cristiani. Morì presso Ujlak sulla riva del Danubio nel regno di Ungheria. 


Dalla data tradizionale del 28 marzo, il nuovo Calendario della Chiesa ha riportato al 23 ottobre, data effettiva della sua morte, la memoria facoltativa di San Giovanni da Capestrano, uno dei due Santi che, nelle opere d'arte del '400, vengono rappresentati con lo stemma di Cristo Re.
Il primo è San Bernardino da Siena, che mostra lo stemma raggiante sulla tipica tavoletta di legno, da lui alzata su tutte le piazze come simbolo di libertà e pegno di pace. Il secondo è San Giovanni da Capestrano, che sventola invece quel luminoso stemma sopra una bandiera spiegata, garrente nell'aria di una ideale battaglia.
Era nato a Capestrano, vicino all'Aquila, nel 1386, da un barone tedesco, ma da madre abruzzese, e il biondo incrocio tra il cavaliere tedesco e la fanciulla abruzzese veniva chiamato "Giantudesco". "I miei capelli, i quali sembravano fili d'oro - ricorderà da vecchio -io li portavo lunghi, secondo la moda dei mio paese, sicché mi facevano una bella danza". Studente a Perugia, si laureò e divenne ottimo giurista, tanto che Ladislao di Durazzo lo fece governatore di quella città. Ma da Perugia si vedeva, sul fianco del Subasio, la rosea nuvola di Assisi, e Giantudesco, caduto prigioniero, meditò in carcere sulla vanità del mondo, come aveva già fatto il giovane San Francesco.
Non volle perciò tornare alla vita mondana e uscito di carcere si fece legare dalla corda francescana, entrando nell'Ordine, dove San Bernardino propugnava, nel nome di Gesù, la riforma della cosiddetta " osservanza ".
Giantudesco entrò in intimità col Santo riformatore. Lo difese apertamente e valorosamente quando, a causa della devozione del Nome di Gesù, il Santo senese venne accusato d'eresia. Anch'egli così prese come emblema il monogramma bernardiniano di Cristo Re e lo portò nelle sue dure battaglie contro gli eretici e contro gl'infedeli. Il Papa lo nominò Inquisitore dei Fraticelli; lo inviò suo legato in Austria, in Baviera, in Polonia, dove si allargava sempre di più la piaga degli Ussiti. In Terra Santa promosse l'unione degli Armeni con Roma.
Ovunque c'era da incitare, da guidare e da combattere, Giantudesco alzava la sua bandiera fregiata dal raggiante stemma di Gesù o addirittura una pesante croce di legno, che ancora si conserva all'Aquila, e si gettava nella mischia, con teutonica fermezza e con italico ardore.
Aveva settant'anni, nel 1456, quando si trovò alla battaglia di Belgrado investita dai Turchi. Entrò nelle schiere dei combattenti, dove era più incerta la sorte delle armi, incitando i cristiani ad avere fede nel nome di Gesù. " Sia avanzando che retrocedendo - gridava, ~ sia colpendo che colpiti, invocate il Nome di Gesù. In Lui solo è salute! ".
Per undici giorni e undici notti non abbandonò mai il campo. Ma questa doveva essere la sua ultima fatica di combattente. Tre mesi dopo, il 23 ottobre, Giantudesco moriva a Villaco, nella Schiavonia, consegnando ai suoi fedeli la Croce, emblema di Cristo Re, che egli aveva servito, fino allo stremo delle sue forze.


San Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) Papa

(Papa dal 22/10/1978 al 02/04/2005 ).
Nato a Wadovice, in Polonia, è il primo papa slavo e il primo Papa non italiano dai tempi di Adriano VI. Nel suo discorso di apertura del pontificato ha ribadito di voler portare avanti l'eredità del Concilio Vaticano II. Il 13 maggio 1981, in Piazza San Pietro, anniversario della prima apparizione della Madonna di Fatima, fu ferito gravemente con un colpo di pistola dal turco Alì Agca. Al centro del suo annuncio il Vangelo, senza sconti. Molto importanti sono le sue encicliche, tra le quali sono da ricordare la "Redemptor hominis", la "Dives in misericordia", la "Laborem exercens", la "Veritatis splendor" e l'"Evangelium vitae". Dialogo interreligioso ed ecumenico, difesa della pace, e della dignità dell'uomo sono impegni quotidiani del suo ministero apostolico e pastorale. Dai suoi numerosi viaggi nei cinque continenti emerge la sua passione per il Vangelo e per la libertà dei popoli. Ovunque messaggi, liturgie imponenti, gesti indimenticabili: dall'incontro di Assisi con i leader religiosi di tutto il mondo alla preghiere al Muro del pianto di Gerusalemme. Così Karol Wojtyla traghetta l'umanità nel terzo millennio. La sua beatificazione ha luogo a Roma il 1° maggio 2011.

Karol Józef Wojtyła, eletto Papa il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Cracovia, il 18 maggio 1920.

Era il secondo dei due figli di Karol Wojtyła e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941.

A nove anni ricevette la Prima Comunione e a diciotto anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.

Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.

A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del "Teatro Rapsodico", anch’esso clandestino.

Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale a Cracovia il 1 novembre 1946. Successivamente, fu inviato dal Cardinale Sapieha a Roma, dove conseguì il dottorato in teologia (1948), con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce. In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.

Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowić, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino una tesi sulla possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.

Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.

Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Paolo VI che lo creò Cardinale il 26 giugno 1967.

Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-65) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyła prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.

Viene eletto Papa il 16 ottobre 1978 e il 22 ottobre segue l'inizio solenne del Suo ministero di Pastore Universaledella Chiesa.

Dall’inizio del suo Pontificato, Papa Giovanni Paolo II ha compiuto 146 visite pastorali in Italia e, come Vescovo di Roma, ha visitato 317 delle attuali 332 parrocchie romane. I viaggi apostolici nel mondo - espressione della costante sollecitudine pastorale del Successore di Pietro per tutte le Chiese - sono stati 104.

Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Encicliche, 15 Esorta-zioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche. A Papa Giovanni Paolo II si ascrivono anche 5 libri: "Varcare la soglia della speranza" (ottobre 1994); "Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio" (novembre 1996); "Trittico romano", meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); "Alzatevi, andiamo!" (maggio 2004) e "Memoria e Identità" (febbraio 2005).

Papa Giovanni Paolo II ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione - nelle quali ha proclamato 1338 beati - e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha tenuto 9 concistori, in cui ha creato 231 (+ 1 in pectore) Cardinali. Ha presieduto anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.

Dal 1978 ha convocato 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).

Nessun Papa ha incontrato tante persone come Giovanni Paolo II: alle Udienze Generali del mercoledì (oltre 1160) hanno partecipato più di 17 milioni e 600mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose (più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo; numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.

Muore a Roma, nel suo alloggio nella Città del Vaticano, alle ore 21.37 di sabato 2 aprile 2005. I solenni funerali in Piazza San Pietro e la sepoltura nelle Grotte Vaticane seguono l'8 aprile.
La festa liturgica è iscritta nel Calendario Romano generale al 22 ottobre, con il grado di memoria facoltativa.

Fonte:

www.karol-wojtyla.org    


venerdì 16 ottobre 2015

Santa Teresa di Gesù (d'Avila)

Nata nel 1515, fu donna di eccezionali talenti di mente e di cuore. Fuggendo da casa, entrò a vent'anni nel Carmelo di Avila, in Spagna. Faticò prima di arrivare a quella che lei chiama la sua «conversione», a 39 anni. Ma l'incontro con alcuni direttori spirituali la lanciò a grandi passi verso la perfezione. Nel Carmelo concepì e attuò la riforma che prese il suo nome. Unì alla più alta contemplazione un'intensa attività come riformatrice dell'Ordine carmelitano. Dopo il monastero di San Giuseppe in Avila, con l'autorizzazione del generale dell'Ordine si dedicò ad altre fondazioni e poté estendere la riforma anche al ramo maschile. Fedele alla Chiesa, nello spirito del Concilio di Trento, contribuì al rinnovamento dell'intera comunità ecclesiale. Morì a Alba de Tormes (Salamanca) nel 1582. Beatificata nel 1614, venne canonizzata nel 1622. Paolo VI, nel 1970, la proclamò Dottore della Chiesa. (Avvenire)

Martirologio Romano: Memoria di santa Teresa di Gesù, vergine e dottore della Chiesa: entrata ad Ávila in Spagna nell’Ordine Carmelitano e divenuta madre e maestra di una assai stretta osservanza, dispose nel suo cuore un percorso di perfezionamento spirituale sotto l’aspetto di una ascesa per gradi dell’anima a Dio; per la riforma del suo Ordine sostenne molte tribolazioni, che superò sempre con invitto animo; scrisse anche libri pervasi di alta dottrina e carichi della sua profonda esperienza.


Teresa d’Avila (1515-1582) aveva due anni quando furono affisse sulla porta della Cattedrale di Wittenberg (31 ottobre 1517) le 95 tesi di Lutero contro la vendita delle indulgenze, una roboante manifestazione pubblica di protesta contro la Chiesa.
Nel secolo della Riforma Protestante (più corretto sarebbe dire “Rivoluzione”) Teresa si distinse per la sua imponente opera riformatrice all’interno dell’ordine carmelitano. Teresa di Gesù, la cui festa liturgica cade il 15 ottobre, fu monaca per oltre vent’anni nel monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Regola carmelitana aveva subito un rilassamento. L’elevato numero di suore, la troppa frequenza degli incontri in parlatorio, una certa disorganizzazione nella distribuzione dei compiti rendevano difficile la vita contemplativa a chi non era dotato di ferma volontà.
Fu così che Teresa ebbe l’intuizione di fondare una clausura stretta: il 24 agosto 1562 la riforma teresiana prese vita nella piccola casa di San José. La grande mistica spagnola comprese che, di fronte alle lacerazioni della Chiesa del suo tempo, la sua risposta doveva consistere nell’essere figlia e sposa fedele di Dio attraverso la maggior adesione possibile alla Regola religiosa a cui si era sottomessa. Il suo sguardo soprannaturale le permise di vivere la Fede in pienezza e i disegni divini si concretizzarono per mezzo di lei.
Ella sapeva che stando continuamente accanto al Signore avrebbe ottenuto dalla Sua Onnipotenza doni di grazia per la Chiesa martoriata dalle corruzioni, dalle infedeltà, dagli scismi; doni di grazia per il Papa, per i sacerdoti, per i missionari, per i cattolici… ella sapeva che, come ogni gesto d’amore offerto al prossimo sale al Signore, così ogni gesto d’amore offerto al Signore ricade sul prossimo. La piccola comunità delle Carmelitane Scalze (come venivano chiamate le monache di San José) diede una tale testimonianza di santità che ben presto molte giovani chiesero di abbracciare quella vita in cui austerità e gioia, rigore e soavità, solitudine e cordialità si fondevano in un equilibrio mirabile.
Quello che Teresa inserì nell’Ordine non fu soltanto una serie di norme, finalizzate alla crescita interiore, ma soprattutto una profonda unione fra vita mistica e vita apostolica. La visita di un francescano di ritorno dalle Indie stimola ancora di più il suo ardore missionario e sollecita le sue figlie a pregare «con gli occhi fissi sui bisogni della Chiesa».
Una notte del 1566 ha la prescienza che la sua opera di riforma deve proseguire; sei mesi dopo, padre Rubeo, Superiore generale dell’Ordine del Carmelo, durante una sua visita al convento di San José, viene conquistato dalla fede, dall’intelligenza e dall’ardore di Madre Teresa di Gesù, perciò l’autorizza a fondare in Castiglia molti monasteri, compresi due conventi di Carmelitani Scalzi; una misura di importanza vitale, infatti santa Teresa sa che la sua riforma avrà successo solo se le figlie saranno sostenute da confessori e direttori spirituali che obbediscono alla stessa Regola.
Ha 52 anni e inizia una nuova tappa della sua vita religiosa: si appresta a percorrere le strade della Castiglia, nel freddo più intenso e nelle estati polverose, a dorso di mulo o in carri coperti, senza cessare di pregare e di meditare. Sorgono chiostri su chiostri: Medina, Malagon e Valladolid (1568); Toledo e Pastrana (1569); Salamanca (1570); Alba de Tormes (1571); Segovia, Beas e Siviglia (1574); Soria (1581); Burgos (1582)… Si fa «mercanteggiatrice», «maneggiatrice di affari», come ella stessa si autodefinisce nell’autobiografia; discute il prezzo dei terreni sui cui erigere i conventi; si relaziona con le autorità civili per ottenere le autorizzazioni necessarie; cerca validi collaboratori.
Nel 1567 incontra un giovane che studia a Salamanca, è stato appena ordinato sacerdote e si prepara ad entrare in una certosa: è Giovanni di San Mattia. Madre Teresa di Gesù si accorge subito di essere di fronte ad un’anima eletta e allora gli chiede di cambiare i suoi piani. Eccolo, allora, san Giovanni della Croce prendere la veste degli Scalzi e accompagnare la fondatrice nei suoi viaggi. «Era così buono», scriverà la santa, «che ero io a dover imparare da lui molto di più di quanto potessi insegnargli». Nasce fra le loro anime un’amicizia spirituale straordinaria, di sorprendente efficacia, sia nei momenti prosperi, sia in quelli di grande buio. A partire dal 1577 il conflitto fra le due osservazioni del Carmelo, quella lassista e quella fedele alla Regola originale, si intensifica in un’atmosfera di passione e di incomprensione.
La morte del principale protettore dei Carmelitani riformati, il nunzio Nicolas Ormaneto, priva Teresa di un prezioso appoggio, tanto più che viene sostituito da un nemico degli Scalzi, Filippo Sega. Poiché le religiose dell’Incarnazione di Avila nel 1577 hanno osato eleggere Teresa di Gesù priora del convento, vengono scomunicate dal loro provinciale. E mentre Madre Teresa di Gesù viene reclusa nel convento di San José, Giovanni della Croce è arrestato. Il nunzio Sega pone i riformati sotto il governo di quelli che seguono la Regola blanda.
Santa Teresa però non demorde e non si rassegna all’ingiustizia dell’autorità umana, perciò decide di rivolgersi a Re Filippo II di Spagna per salvare la riforma del ramo femminile e maschile dell’Ordine. Nel 1580 ottiene un breve pontificio da parte di Gregorio XIII, che costituisce gli Scalzi in provincia separata, ponendo così fine a dieci anni di lotte fra le due correnti del Carmelo: se santa Teresa non avesse resistito, la salubre riforma sarebbe affondata sotto le persecuzioni e le ostilità. Anche oggi la Chiesa attende, come 500 anni fa, anime coraggiose, pronte, con carità, a sfidare l’errore per restaurare la verità dentro e fuori i conventi.
Autore: Cristina Siccardi


venerdì 9 ottobre 2015

Sant' Abramo Patriarca d'Israele

Nella Bibbia due titoli definiscono precipuamente Abramo, il patriarca, originario della Mesopotamia, stabilitosi a Carran e di lì emigrato nella terra di Canaan. Amico di Dio, egli è il padre dei credenti. Come amico della divinità, è modello di vita religiosa e morale, che può intercedere per sé e per i suoi alleati. Come credente, vive nella tensione tra fede e promessa.
Lascia il suo paese guidato dalla fiducia nella parola di Dio, ma le circostanze sembrano contraddire l’attesa: il patriarca è anziano, Sara non è in grado di avere figli.
«Abramo, tuttavia, credette nel Signore che glielo accreditò come giustizia». La dialettica della fede, però, diviene ancora più acuta con l’inaudita richiesta di sacrificare Isacco. Il viaggio di Abramo verso il monte Moria in compagnia del figlio diventa il paradigma della notte oscura, del viaggio della fede nella tenebra di Dio il quale sembra rinnegare la promessa tanto attesa e coltivata.
All’obbedienza del padre risponde il gesto di liberazione di Dio. In ambito cristiano è soprattutto l’apostolo Paolo a riflettere sulla figura di Abramo. Fedele alla sua concezione, ritiene che il patriarca, giustificato per la fede, sia sorgente di benedizione per l’umanità.
Inoltre, proprio dalla riflessione sulla sua figura Paolo trae la conclusione che la salvezza non deriva dalle opere ma dal dono di Dio accolto nella fede. Su questo punto insistettero Lutero, i teologi, gli uomini di cultura e gli artisti che aderirono alla riforma del XVI secolo. Modello di fede per ebrei e cristiani, Abramo è venerato anche dai seguaci dell’Islam.

 Martirologio Romano: Commemorazione di sant’Abramo, patriarca e padre di tutti i credenti, che, chiamato da Dio, uscì dalla sua terra, Ur dei Caldei, e si mise in cammino per la terra promessa da Dio a lui e alla sua discendenza. Manifestò, poi, tutta la sua fede in Dio, quando, sperando contro ogni speranza, non si rifiutò di offrire in sacrificio il suo figlio unigenito Isacco, che il Signore aveva donato a lui già vecchio e da una moglie sterile.

Padre di tutti i credenti, così è chiamato Abramo patriarca del Vecchio Testamento e che rappresentò l’umanità nella grande alleanza che Dio propose. 
Con la vicenda di Abramo, inizia la storia dei Patriarchi d’Israele, che va dal XIX al XVII secolo a.C., raccontata dal capitolo 12 al capitolo 50 nel primo libro della Bibbia, la Genesi. 
Egli era discendente di Sem, uno dei tre figli di Noé e dimorava con il padre Terah e con tutta la famiglia ad Ur dei Caldei, antichissima città della Bassa Mesopotamia (attuale Iraq). 
Terah poi con Abramo e sua moglie Sara e con il nipote Lot, lasciò Ur per emigrare nella terra di Canaan, arrivarono fino ad Harran (Carran) stabilendosi lì per lungo tempo, fino alla morte di Terah che visse 205 anni. Qui avvenne il fatto umanamente inspiegabile, Dio irrompe nella vita ordinaria di Abramo e gli parla chiamandolo ad una missione tanto grande quanto misteriosa: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno, maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. 
Abramo risponde con la fede; sarà poi sempre l’uomo della fede, il primo e il modello dei credenti e in quanto tale è padre di ogni credente, non soltanto della comunità ebraica, cristiana ed islamica, ma anche di tutti gli esseri umani, in cammino alla ricerca di Dio. 
A 75 anni prese con sé la moglie Sara e il nipote Lot, figlio del defunto fratello Aran e si sposta alla maniera dei nomadi, con tutto il bestiame ed i servitori, lungo la regione montuosa della Palestina, toccando e soggiornando in vari luoghi, a Mamre nei pressi di Hebron, Canaan, Sichen, Bersabea nel Negheb, per un breve tempo a causa di una carestia, anche in Egitto; stabilendosi definitivamente nella steppa meridionale del Negheb. 
In seguito a contrasti sorti fra i mandriani di Abramo e quelli di Lot che pure aveva grosse mandrie e greggi, per il poco spazio disponibile, Abramo e Lot si divisero; Lot si diresse allora verso la rigogliosa valle del Giordano, piantando le tende vicino a Sodoma, Abramo rimase nella terra di Canaan. 
In quel tempo vi fu una scorreria al di là del Giordano e a sud della Palestina, di una spedizione di re orientali provenienti dall’est di Babilonia, i quali combattendo e vincendo i piccoli re della Pentapoli (Sodoma, Gomorra, Adma, Sebain, Soar) presero bottino e cittadini prigionieri, compreso Lot con i suoi beni. 
Abramo avvertito di ciò, intervenne con i suoi uomini più esperti nelle armi e piombando di notte sugli invasori li sconfisse, liberò Lot e gli altri prigionieri, recuperando i beni, inseguendoli fino oltre Damasco. 
Del bottino fatto, Abramo offrì una decima a Melchisedech, sacerdote dell’Altissimo e re di Shalem, che gli era venuto incontro benedicendolo e Dio gli confermò la promessa di dare il paese di Canaan ai suoi discendenti. Intanto la moglie Sara essendo sterile e vecchia, per dargli un figlio, cedette al marito la schiava Agar da cui nacque Ismaele; Dio rinnovò il patto con Abramo che aveva 99 anni, promettendogli grandi ricompense, allora lui disse, “Cosa mi darai? Vedi che a me non hai dato discendenza e che un mio domestico sarà mio erede” e Dio a lui “non costui sarà il tuo erede, ma colui che sarà generato da te sarà il tuo erede, guarda in cielo e conta le stelle, tale sarà la tua discendenza” e poi mediante un sacrificio di animali, come era uso fra gli ebrei, Dio suggellò la sua Alleanza con Abramo, sancita con la circoncisione di Abramo, di Ismaele e di tutti i maschi del gruppo, da perpetuarsi con ogni bimbo nato in seguito.
Dio apparve ancora ad Abramo alla Quercia di Mamre sotto le sembianze di tre uomini, ai quali lui offrì cibo, bevande e ospitalità; i tre gli predissero che Sara avrebbe avuto un figlio da lì ad un anno, benché molto vecchia, poi dissero di essere diretti a distruggere le città di Sodoma e Gomorra per i peccati dei loro abitanti. 
Abramo intercesse più volte per loro, affinché venissero risparmiati in virtù dei buoni presenti fra essi; gli angeli, perché di angeli si trattava, concessero che anche per solo dieci giusti, essi avrebbero risparmiato le città. Ma non si trovarono, il solo Lot e sua moglie furono risparmiati; le città sotto una pioggia di fuoco e zolfo, bruciarono con tutti gli abitanti, mentre Lot e la moglie fuggivano, quest’ultima benché avvertita di non farlo, si voltò a guardare l’incendio e si tramutò in una statua di sale. 
Più tardi nacque Isacco e Sara fece allontanare la schiava Agar con il figlio Ismaele, con grande dolore del patriarca, al quale però il Signore promise anche per Ismaele una grande discendenza. A questo punto si arriva al momento più drammatico della vita di Abramo, ma anche più rivelatore della sua grande fiducia in Dio; il Signore volle metterlo ancora alla prova, lo chiamò quando Isacco era già fanciullo e gli disse di portarlo sul monte nel territorio di Moria e di sacrificarlo, come si usava per i sacrifici di animali offerti a Dio. 
Nonostante il dolore provato per questa richiesta di sacrificare quell’unico figlio, nato così prodigiosamente nella tarda vecchiaia e che secondo le promesse di Dio, avrebbe assicurato la sua discendenza, Abramo obbedì, ma quando stava per portare a compimento con il coltello, l’uccisione del figlioletto, un angelo apparso lo fermò dicendo: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo unico figliuolo”. 
Alzando gli occhi poi Abramo vide un ariete impigliato con le corna fra i rami di un arbusto e presolo, insieme ad Isacco, lo sacrificarono sull’altare improvvisato prima. Dio tramite l’angelo gli promise, per questa ubbidienza alla Sua volontà, anche quando tutto veniva rimesso in questione, ogni benedizione, la moltiplicazione della discendenza come la sabbia delle spiagge e le stelle nel cielo e saranno benedette tutte le Nazioni della terra. 
Morta Sara a 127 anni, Abramo mandò il servo Eliezer in Mesopotamia a cercare una moglie per il figlio Isacco, il quale ritornò con Rebecca della stessa famiglia di Abramo. Il patriarca poi sposò Ketura, dalla quale ebbe sei figli, Zimran, Ioksan, Medan, Madian, Isbak e Suach. 
Morì a 175 anni nella terra di Canaan, lasciando erede universale Isacco e un appannaggio agli altri figli. Alla sua genealogia si riallacciano gli Ebrei attraverso Isacco, vissuto 180 anni e gli arabi attraverso Ismaele, che visse 137 anni; la sua importanza per gli ebrei crebbe sempre più, venendo considerato il progenitore e l’uomo del primo patto con Dio; in tutta la tradizione che seguirà, il Signore è spesso chiamato il “Dio di Abramo”. 
Il drammatico episodio del sacrificio di Isacco, in cui Dio manifesta di non gradire i sacrifici umani, è stato in ogni tempo raffigurato nelle opere dei più grandi artisti. 
La Chiesa Cattolica ricorda Abramo, padre di tutti credenti, al 9 ottobre.

Autore: 
Antonio Borrelli