Pereto - Rocca di Botte

giovedì 10 novembre 2016

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

La legge dell’uomo non può essere presa come chiave di lettura del mondo divino.

1. Per analogia.

Avvicinandosi alla conclusione, l’anno liturgico propone alla nostra riflessione, per analogia, l’approfondimento della fede sulle cose ultime, i novissimi: morte, giudizio, paradiso, inferno.

Cominciamo col dire che tutto ciò che sta oltre la morte è oggetto di fede.
L’umanità, infatti, si divide tra chi crede che con l’ultimo respiro perdiamo la coscienza di essere stati e quindi cadiamo nel nulla e chi crede che con la morte continuiamo a vivere anche se in modo totalmente diverso dal presente.
In questo caso la morte segna il passaggio ad un altro modo di vivere.

I Sadducei appartengono al primo gruppo. A giustificazione del loro pensiero applicano all’ipotetico altro mondo le leggi di questo mondo, della loro cultura, della loro tradizione.
E poiché la legge del levirato applicata all’altra vita turberebbe l’ordine pubblico, diremmo noi oggi; creerebbe, cioè, disordine sociale, i Sadducei concludono: non c’è risurrezione.

Le leggi umane non vanno prese come chiave di lettura dell’al di là né da chi non crede né da chi crede.
Le leggi umane sono relative, durano e si reggono sulla volontà degli uomini, sono contingenti. Come possono regolamentare l’assoluto e infinito mondo di Dio?

Qualora lo facessimo saremmo in grande errore, dice Gesù.

2. Il coniugio appartiene a questo mondo, dice Gesù.
Esso è stato pensato dal Creatore per la conservazione della specie.
Chi entra nell’altro mondo vive nell’eternità di Dio: è la morte a farci nascere al Cielo.
Dice sempre Gesù: non tutti comprendono la scelta di alcuni che in questo mondo non si sposano come segno profetico dell’altra vita.

3. Non possono più morire.

a) La vita che non muore è una vita che non conosce il divenire. Ne può avere una pallida idea chi fa l’esperienza della contemplazione.
La nostra vita che è soggetta al divenire, conosce il dramma della morte. Ad un dato momento il divenire esaurisce la propria evoluzione e il soggetto cade nella morte.
La vita in questo mondo nel suo evolversi tende a finire.

La fede ci dice che coglierci e accettarci caduchi è il primo passo per rinascere a vita nuova. È la condizione che ci permette di implorare la mano dell’Eterno.

b) Dio non è dei morti, ma dei viventi.

Come suscita ilarità chi si definisse proprietario di un pianeta o di una cometa, così – dice Gesù – non ha alcun senso per l’uomo credere a un Dio che regna sui morituri e sui morti.
PRIMA LETTURA

Il brano è noto alla nostra Comunità.
Lo proclamiamo il dieci luglio, ricorrenza del martirio dei figli di santa Felicita, e il ventitre novembre, giorno del martirio della madre.

Sempre sul tema dei novissimi, mettiamo in risalto la fede che professa il quarto dei fratelli Maccabei:
<< È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati>>.

Il pio Israelita prega con queste parole: chiunque in te spera non resti deluso.

Facciamo il confronto con le parole di Achille:
<< Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte!
Vorrei da bracciante servire un altro uomo,
un uomo senza podere che non ha molta roba;
piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti>>. Odissea XI, 488-491.

La religiosità si costruisce sui contenuti della fede.
Uno dei fratelli Maccabei professa la fede nella vita eterna e da questa fede fa derivare le sue scelte di vita.
Da ciò impariamo che la fede non è un desiderio, né si concretizza nella sola preghiera: essa, quando è vera fede, segna il tracciato dei nostri comportamenti e dell’intera esistenza.

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